"Le persone non fanno viaggi, sono i viaggi che fanno le persone" J.Steinbeck

martedì 24 settembre 2019

Orgoglio nazionale e birre scure, grandi scrittori e pecore. L’Irlanda.


Galway
Irlanda, non ci sono mai stato ma mi sei sempre piaciuta.
Era un po’ questo il sentimento che provavo per il piccolo paese verde: forse a causa dell’estrema povertà in cui hanno vissuto per secoli, o per il loro spirito ribelle, per i pascoli e gli U2, per aver dato i natali a Joyce e Wilde. Chissà.
Tuttavia questo vuoto andava assolutamente colmato, e complici i voli a prezzi stracciati offerti dalla compagnia, toh’ irlandese gestita da O’Leary, sono partito per sette giorni in solitaria.
Urge fare una premessa: il modo migliore per girare l’Irlanda è senz’altro quello di affittare una macchina per addentrarsi a fondo in ogni anfratto del territorio .
Essendo, tuttavia, solo, decido di muovermi con i bus locali: sia per una questione economica che per sicurezza (che timore quello di guidare a destra)!
Per raggiungere le destinazioni più turistiche mi affiderò ad alcuni tour organizzati in cui, in cambio di un prezzo relativamente basso, viene offerta un' ampia gamma di mete turistiche.
L’aspetto negativo, ovviamente, risulterà essere la gestione del tempo.

Ma andiamo con ordine: arrivo all’aeroporto di Dublino che è l’una di notte.
Un vero viaggiatore che fa del risparmio una ragione di vita (come il sottoscritto) mica va a dormire in ostello, bensì decide di riposarsi qualche ora su una panca degli Arrivi e con le prime luci della mattina prende il primo bus per Galway. Così faccio io.
Nonostante sia fine agosto ci sono almeno dieci gradi in meno che in Italia, fa decisamente freddo, e la pioggia scende incessante.
Il viaggio dura sulle tre ore, uso Bus Eireann - costo16 euro- , e arrivo nella fredda cittadina oceanica su cui spira un vento terribile.
Mi doto di impermeabile e muovo  i primi gelidi passi verso l’ostello, rimpiangendo la banalità di un’estate romagnola. Mi fanno lasciare i bagagli in ostello nonostante sia decisamente presto e ne approfitto per iniziare  fare un giro del centro cittadino; Galway è tutto sommato piccolina, la si gira a piedi, presenta deliziose vie ricolme di pub dall’aspetto invitante. Non è ancora arrivato il momento di sbronzarsi, penso, e vado a fotografare le principali attrazioni cittadine, la basilica della città, l’arco spagnolo, il porto e una specie di castello inglobato tra le costruzioni. Mi concedo anche una breve passeggiata fino a una specie di faro su un’isoletta artificiale. Tutto intorno il verde dei prati e il blu dell’Oceano, sfumati dalla pioggia che continua a battere sulla mia persona.
La sera sono stremato.
il dolmen nel Burren


Il giorno seguente è in programma uno dei tre tour previsti: con 35 euro mi sono assicurato la visita a un castello (il nome si è perso tra i fogli in cui annotavo di tutto), il passaggio nel Burren, la sosta a Doolin e, piatto forte, le Cliff of Moher.
Si parte dalla stazione dei Bus e il viaggio è un continuo brusio da parte della guida che prova in tutti i modi a tenere alto l’umore della truppa con certe battute dal gusto rivedibile.
E’ anche il viaggio della speranza: infatti per godersi appieno la vista delle scogliere è necessario non ci sia la nebbia che occluderebbe gran parte del panorama.
Saremmo fortunati.
La giornata scorre velocemente tra una tappa a un cimitero storico, e i mitici sassi del Burren.
Arriviamo a Doolin e la guida spende circa dieci minuti a elogiare la cucina di un pub che ci consiglia caldamente, io me ne frego e una volta sceso dal bus faccio una passeggiata in solitaria sul crinale di una collina. Un’esperienza magnifica.
Ma la pancia resta dannatamente vuota, penso mentre con il bestione arriviamo sulle scogliere.
Lì ci vengono concesse due ore di tempo per visitarle. Io le percorro, estasiato: lo spettacolo è imponente, voglio una foto con quel panorama mozzafiato dietro. Ne chiedo circa una ventina a persone diverse, nessuno che sia in grado di non metterci un dito sopra, o non sfocarle.
Poi trovo una vecchia che con insospettabile mano ferma adempie al suo lavoro.
Mi godo questa forza della natura inspirando a pieni polmoni, la giornata è fantasticamente soleggiata, poi è ora di tornare.
Nota carina, il castello di cui non mi ricordo il nome e in cui ci eravamo fermati poche ore prima, ora si trova circondato da acqua! L’alta marea ha ricreato una specie di Moint Saint Micheal!
Torno nel mio ostello che nel frattempo si è riempito di indiani, scopro che il Lidl è un bel posto per comprare piatti pronti e birre economiche, e felice della giornata mi appisolo.

Le cliff of Moher

La terza giornata vede la comparsa del secondo tour, quello nel Connemara, il castello di Kylemore, il villaggio di Cong e un'altra abbazia spersa nel verde. Il clima è piovoso, troppa grazia ricevuta il giorno prima, e per questo il viaggio in questo enorme parco nazionale risulterà meno bello di quanto lo sarebbe stato senza tutta quell’acqua. Poi c’è la mia vicina di bus, una tedesca, ma forse austriaca, tanto carina quanto antipatica con cui provo a scambiare qualche parola, ma le mie iniziative vengono spente sul nascere, sguardo dritto e nessun cedimento.
Il Connemara, dunque, è un lago visto dal finestrino. E’ una pecora, degli arbusti, degli alberi, un altro gregge di pecore, sempre visti dal finestrino, e dopo un po’ prendo sonno, perché la voce di questa guida è così musicale, e c’è un tepore niente male, tanto che quando il pullman si ferma a malapena mi tiro sù dal sedile per scattare una foto del solito incantevole scorcio verde.
Arriviamo al castello di Kylemore, gioiello incastrato sulle sponde di un laghetto, e la guida ci vende i biglietti scontati per l’ingresso, io declino l’offerta deciso a sgranchirmi le gambe per il Connemara.
Fanculo i castelli, sono belli da fuori, da dentro tutti uguali …
In pochi minuti mio giro si trasforma in una gara di sopravvivenza, le strade non prevedono il transito di pedoni e me ne devo stare ben schiacciato contro il parapetto per evitare di terminare i miei giorni su un grigio asfalto irlandese. Per fortuna a bordo strada ci sono tanti frutti di bosco, e io mi sfamo un po’ così, un po’ con un’insalatina a base di cipolle che non farà altro che aumentare la distanza tra me e la bella austroungarica. Ci fermiamo ancora al villaggio di Cong, curioso e spettrale, con le sue arcate e costruzioni in pietra, maledizione leggessi qualcosa in più la smetterei di vagare a vuoto chiedendomi continuamente di che civiltà parliamo, e se sono precedenti o meno ai romani.
Mi concedo un caffè americano, confermo il giudizio che avevo, ossia è schifoso ma dannatamente stiloso, sembro un business man mentre cammino con quel bicchierone di carta tra le mani;  effettuiamo l’ultimo stop nei pressi di un’abbazia sventrata del proprio tetto ma estremamente scenografica, in cui mucche e tori pascolano allegramente.
Sono un po’ meno soddisfatto del tour odierno, in un parco di quelle dimensioni sarebbe stato meglio andarci con una propria auto, fermandosi dove si voleva e fotografando ciò che ispirava … ma a ben pensarci, farlo autonomamente sarebbe stato impossibile, quindi va bene così.
La sera prendo un bus per Dublino, è ora di spostarsi verso la capitale: saluto Galway come un regalo non utilizzato a pieno. Maledetta fretta che impone ritmi serrati e visite superficiali.

L’Abbey Court è uno degli ostelli più belli in cui sia stato fin’ora, sul fiume Liffey a poche centinaia di metri da Temple bar e dalle principali attrazioni della città.
Ci arrivo quasi a mezzanotte, dormo qualche ora, e sono pronto per l’ultimo tour, e francamente ne sono contento.  Questi viaggi organizzati iniziano a essere pesanti, e necessito di un po’ di libertà. Tuttavia questa escursione l’avevo trovata a metà prezzo, 17,50 euro, e mi avrebbe dato la possibilità di vedere Glendalough, le montagne di Wicklow e la splendida città di Kilkenny, sede del celebre castello.
La guida è una spagnola che urla al microfono il proprio entusiasmo per il suo lavoro, i resti di Gle..(leggere sopra) sono incantevoli anche perché posti in uno scenario spettrale, tra laghetti e radure.
Nella visita all’antica città è inclusa una dimostrazione canina: un pastore fa vedere come un cane sia in grado di dirigere un gregge: fenomenale! Tutto lo spettacolo mi scade parecchio quando il tizio, finita la dimostrazione, prende una pecora e la fa sedere accanto a sé, invitando gli astanti a farsi un selfie. Una trashata inutile, cui non pochi turisti prendono parte.
Le montagne di Wicklow sono lo scenario che ci si aspetta dall’Irlanda, con cascatelle, varie sfumature di verde e banchi di nebbia, mentre ad accoglierci a Kilkenny c’è un sole palliduccio.
Delle due ore a disposizione ne spendo la metà alla ricerca di un bagno e del cibo, economico. Ripiego sull’Aldi, mi scolo un succo che sa di petrolio e un bombolone alla crema, nel castello non ci entro perché non voglio spendere e per il principio enunciato prima, guardo la splendida cattedrale, le vie principali, colme di negozietti carini e turisti a spasso e concludo la gita pensando che questo sarebbe un ottimo posto dove rifarsi una vita.
Uno scorcio della passeggiata a Howth

Torno a Dublino in serata con una gran voglia di starmene per gli affari miei, senza dover più seguire una guida che mi dicesse quando mangiare.

Il giorno dopo me ne cammino lungo il fiume Liffy quando mi viene in mente che avevo letto da qualche parte che poco distante da Dublino c’è una località marittima, Howth, veramente incantevole. Basta prendere la Dart (filovia), e in mezz’ora si arriva.
C’è il sole, merce rara da quelle parti, e così decido di spostarmi sul mare. Dublino può attendere.
La scelta si rivela vincente: Howth è veramente meravigliosa, con il suo faro, il porto, un vento allucinante e il sole finalmente splendente. Dalla cittadina parte una lunga camminata di circa 3-4 ore i cui ci si perde nel verde della macchia mediterranea, e pazienza se siamo ben lontani dal Mediterraneo, fiori arbusti e colori sono del tutto simili.
Io cammino in questo paradiso con grande calma, mi godo ogni istante che la giornata mi regala, finchè giungo su un promontorio sovrastato da un faro: fine della camminata. Mi siedo tra le frasche a guardare lo sterminato blu davanti a me.
Il ritorno è meno poetico, mi perdo nella cittadina, un altro posto di cui devo guardare il costo delle case per poi sognare di trasferirmi con una moglie di nome Wendy e un cane che mi fa le feste quando rientro da lavoro. Già che sono di strada passo per il solito castello, in questo non mi pare si possa entrare, poco male, non l’avrei fatto comunque.

La mattina del penultimo giorno mi aggrego a un free tour a piedi per le principali vie della città: si parte da “The spire” e si toccano (da fuori) i punti salienti: la guida è un ex metallaro che odia l’Inghilterra e Trapattoni,  riesce a darmi informazioni utilissime sul Paese, alcuni cenni storici fondamentali e con il suo fare esaltato, a tratti incazzato, coinvolge tutto il gruppo per quasi tre ore. Lasciata la mancia mi faccio un giro al Trinity College, entrata gratis eccetto la sala della biblioteca che costa 16 euro e di cui si possono trovare ottime foto in internet, la casa di Joyce, la statua dello stesso, la statua di Wilde, il castello di Dublino (vale quanto detto sopra), vari ponti (i veri protagonisti della città), e una bionda a Temple bar, il quartiere dei pub, a detta della nostra guida una baracconata per turisti.
Il celebre Temple Bar

L’ultimo giorno decido di puntare il Phoenix Park, l’enorme polmone verde cittadino, dove mi imbatto in un obelisco dedicato a Wellington, una serie di aiuole perfette e, soprattutto, una mandria di cerbiatti! Resto folgorato dalla loro bellezza, e per un po’ mi siedo ad osservarli! Ma non saranno gli unici, visto che scoprirò un intero campo da rugby completamente invaso da questi animali.

Per pochi euro entro nelle carceri di Kilmainham dove fino a pochi anni fa venivano rinchiusi i rivoluzionari, passo di fronte al museo della Guinness ma penso che in fondo a me non mi è mai piaciuta, e spendere oltre venti euro per scoprire come viene fatta una cosa che non mi piace non ha tutto sto senso.
Mi concedo l’entrata nel Piccolo Museo di Dublino (10 Euro), dove un signore distinto e vestito da nobile di fine ‘800 ci fa fare un giro per il tipico appartamento dublinese del secolo scorso: le stanze sono colme di libri, poster, quadri, e soprammobili, tutti riferimenti alla storia di questa città fatta di orgoglio nazionale, grandi scrittori e fede religiosa.
Giro ancora un po’ le strade del centro, quasi a fissarle nella memoria, poi è tempo di prendere il bus che in mezz’ora mi porterà all’aeroporto.

Si cara Irlanda, ora che ti ho scoperto posso dire che le mie sensazioni erano giuste: mi piaci un sacco!


martedì 6 agosto 2019

Un'esperienza da Group Leader in Abruzzo



L’ultima avventura in cui mi sono imbarcato e di cui vorrei scrivere non riguarda un viaggio in senso stretto, come quelli descritti fin qui, ma tratta di un’esperienza lavorativa stagionale, quella di group leader.
Ho deciso di parlarne perché potrebbe interessare qualche viaggiatore attirato dagli annunci che puntualmente vengono proposti in primavera e che promettono un alloggio e qualche centinaio di euro in cambio di tanta pazienza e parecchia responsabilità.
In parole povere, il group leader è colui che accompagna i ragazzi in soggiorni, generalmente di un paio di settimane, in giro per l’Italia o per il Mondo. Se ne deve fare carico dalla partenza alla riconsegna al genitore, dalla sveglia alla buonanotte, e spesso oltre, vista l'attitudine dei ragazzi a saltare di camera in camera nel cuore della notte.
Una proposta di lavoro ideale per chi vuole unire l’utile al dilettevole: il carattere didattico dell’esperienza porta i ragazzi in luoghi estremamente interessanti, spesso dove si parla l’inglese, quali Londra, York, Dublino e perché no Miami, Orlando e la California.
A chi non brillerebbero gli occhi all'idea di farsi una semi-vacanza a sbafo?
il cappellino rosso dell'Accademia

Il compenso è quello che è, circa 400 euro per due settimane che prevedono responsabilità parecchio alte, quali quelle di tenere a bada una squadra di ragazzini e relativi ormoni impazziti o il fronteggiare orde di genitori che, dall’altro capo del telefono, chiedono continuamente informazioni sul proprio pargolo … ma anche quella è avventura!

La giornata di selezione generalmente coincide con quella di formazione e si tiene ben prima dell’eventuale partenza, i requisiti sono semplici: la conoscenza dell’inglese (è richiesto un livello medio) e un certo grado di entusiasmo.
Solitamente nella mattinata vengono dettate le linee guida da tenere durante l’eventuale soggiorno, come comportarsi e cosa evitare di fare, mentre il pomeriggio c’è la chiacchierata individuale.
Io partecipai alla selezione per Itf e Accademia Britannica, il primo addirittura a marzo, il secondo verso maggio, entrambi con esito positivo.
Il problema di questo impiego è che, valutata l’idoneità, nessuno ti da la certezza di partire, la meta (durante il colloquio esprimi delle preferenze totalmente inutili) e l’eventuale periodo, che ricopre tre mesi estivi. Per cui uno sano di mente una volta fatto il colloquio se ne dimentica e chi s’è visto s'è visto. Ma non è il mio caso.

Ricevo la chiamata da Accademia Britannica a fine giugno, mi chiedono di partire per un campo estivo a Castel di Sangro per il nove luglio.
Sono spiazzato, avevo fatto domanda solo per l’estero e la meta abruzzese mi attira molto poco. Tuttavia non avendo grandi progetti per l’estate decido di accettare.
La gita in canoa sul fiume Tirino
La parte più complessa per un group leader è senz’altro quella del viaggio: infatti devi farti carico dei minori, occuparti della parte relativa ai documenti, spostamenti e cambi di orari.
Nel mio caso da Porta Nuova sarei partito con tre ragazzi, poi ne sarebbero saliti altri a Milano e Bologna, accompagnati da altri group leader. Arrivati a Pescara avrei dovuti lasciare i miei con chi partiva per la Puglia o altre mete e, cosa più importante, recuperare quelli destinati a Castel di Sangro.
Un bel casino considerate le stazioni d’estate particolarmente affollate, la non familiarità con i ragazzi che, in genere, sono parecchio distraibili da bagni e bar, e il mio momento di smarrimento per un’esperienza mai fatta prima.

Tuttavia riesco a portare a termine la missione, arrivo in serata al Centro, ci abbuffiamo al ristorante e i quasi ottanta ragazzi vengono immediatamente divisi in quattro squadre capitanate ciascuna da un group leader, distribuiamo cappellini e zainetti e poi tutti a nanna.

Il campo è formato da tanti chalet in legno da 3,4,5,6 posti su una stradina poco trafficata e di fronte a un delizioso lago artificiale. I ragazzi sono liberi di occupare quelli che vogliono, mantenendo la distinzione di genere, mentre io vengo messo in una doppia con l’unico altro group leader homo, Davide, siciliano dai modi simpatici con cui instaurerò un bel rapporto.
Rosanna, la direttrice e l’anima di tutto il Centro, attraverso una prima riunione ci spiega come saranno strutturate le due settimane: verranno proposte lezioni di inglese (tre ore al giorno a cui partecipano circa il 70% dei ragazzi) e saranno previste varie attività nella natura: rafting, wakeboard, parco avventura, giornata ambientale e un’escursione nel Parco del Gran Sasso in canoa, bici e a piedi.
Il Parco è inoltre dotato di piscina con scivoli e un paio di campi sportivi, dove i ragazzi passeranno il tempo nei giorni liberi dalle sopracitate attività.
Insomma non avranno da annoiarsi: peccato che la bella località abruzzese la prima settimana sarà colpita da un’ondata eccezionale di maltempo. Pioggia e vento falcidieranno i piani, costringendoci a riprogrammare continuamente le attività; un po’ le rinviamo un po’ le facciamo appena si apre uno spiraglio di sole.

Passando a un piano personale, io all’inizio me la cav….ehm, porto a casa una sufficienza!
I ragazzi sono parecchio agitati, specie quelli del mio gruppo costituito da solo due bimbe e 16 ragazzi, i quali spesso giungono in ritardo agli appuntamenti, ci mettono una vita a prepararsi, mi fanno sgolare per una fila per due … e sono abbastanza disinteressati ai giochi di squadra che vengono riproposti continuamente e che vorrebbero una certa collaborazione tra il team. Invece nisba, c’è chi fa il dispetto all’amico, chi gioca per i fatti suoi, chi se ne frega, chi esce fuori tema, chi corre dietro alle ragazzine e chi trova più interessante il cellulare (severamente vietato!)
Per fortuna sono ancora ai margini del periodo della ribellione, per cui gestibili con (finte) minacce e toni della voce duri!
Con gli altri group leader si crea sin da subito un ottimo rapporto: tutti siamo alla prima esperienza, e seppur con età differenti, ci amalgamiamo alla perfezione, gestendo sveglie e ronde notturne senza il minimo problema, anzi divertendoci pure.

Le giornate scorrono via senza il minimo tempo per una pausa: quando i ragazzi sono nelle camerette noi pensiamo a cosa fare durante la prossima attività, o cerchiamo di gestire delle problematiche che possono essere state sollevate: una volta è una battaglia di molliche a cena, un’altra lo zio di peppino che chiama perché il nipote si annoia, e così via.
Naturalmente gran parte del tempo lo si spreca negli spostamenti: muovere una massa di 80 bimbi non è semplice e l’unica volta che azzardiamo andare in città ci mettiamo una vita tra strade da attraversare e vicoli in cui non staccarci.
Riusciamo a raggiungere la Chiesa di Castel di Sangro e fare un mezzo giro della cittadina, cercando di evitare i continui assalti ai bar da parte dei pargoli: essi, a quanto pare, hanno parecchi soldi lasciati dai genitori, e visto che dentro il Parco non c’è possibilità di spesa, appena si crea l'occasione si fiondano a comprare lecca lecca e patatine.

Per ciò che riguarda i pasti, andiamo a mangiare nel vicino hotel del Parco: il trattamento è buono ma chiaramente la cucina offerta è atta a soddisfare l’utenza, quindi viene servito in abbondanza pollo, patate, pasta al sugo e gelato. Non il massimo della salute, ma per due settimane si può tranquillamente sforare.




io e Davide, due group leader in formazione
Tolte le escursioni, estremamente belle, specie quella finale sul fiume Tirino, i ragazzi sono impegnati in piscina o, se il tempo non lo permette, nei campi, dove si sfideranno in epiche partite di Dodge ball(?), calcetto (ma che fatica calmare il loro agonosmo!) e pallavolo. Qualche tentativo di ginnastica andato male.

Con l’inglese si impegnano a organizzare una gigantesca caccia al tesoro, anche se alla fine ci dimentichiamo di proclamare il vincitore.
Le sere prevedono due possibilità, lo stare nei giardinetti fino alle undici o l’attività di “animazione”: solitamente si alterna.
I ragazzi protendono per la libertà, anche perché in casa hanno la possibilità di usare il cellulare, tuttavia grazie alle capacità e allo spirito di iniziativa di Rosanna, riusciamo a organizzare giochi carini. Certo la differenza di età non aiuta: ciò che può esaltare un bimbo di otto anni può annoiare un teenager. Ma si fa il possibile.
Se devo trovare una critica all'organizzazione, essa riguarda i mezzi a disposizione: non c’è una sala comune, mancano giochi più elaborati, materiale, proiettori, casse, schermi per vedere un film, magari in lingua … insomma tutto è molto improvvisato e legato all’estro della direttrice.

I ragazzi si integrano bene, salvo rari casi: in uno di essi una mamma sarà costretta a venire a prendere il figlio distrutto da nostalgia e lacrime, ma è un eccezione.
Ci sono poi i cellulari e il relativo controllo che i genitori esercitano sui figli mediante essi; potrei scrivere diverse righe su come ogni cavolata venga amplificata e ingigantita a casa, con la conseguente telefonata del padre di turno al group leader, ma non è il caso.
Meglio concentrarsi sulla commozione generale che coinvolge tutto il gruppo durante la serata finale, con occhi lucidi e promesse di restare in contatto. Chissà.

Il viaggio di ritorno si porta dietro la stanchezza e un filo di malinconia per l’avventura appena conclusa, trascorre lento e costellato dai continui saluti e strette di mano.
Saluto il Centro la mattina con ottanta ragazzi, quando scendo a Porta Nuova verso le 20 siamo rimasti in quattro, tre li lascio ai genitori, il quarto, che sarei io, lo trascino lentamente alla fermata del 4.
Sono soddisfatto, anche questa è andata.


giovedì 2 maggio 2019

Camargue e Provenza in bici. Più o meno.


Il piano è stato stravolto lungo l’autostrada che corre sulla Costa Azzurra.
Era da ventiquattrore che pioveva a dirotto e ci siamo arresi all’evidenza che avrebbe continuato così anche nei successivi due giorni.
La solita sfiga pasquale. Peccato.
L’itinerario era stato pianificato per scorrazzare tutti e cinque i giorni in bicicletta lungo le strade paludose delle Camargue e i campi di girasoli tanto cari a Van Gogh.
Ci eravamo persino ingegnati nel caricare le bici sulla Pandina.
C’est la vie.
La pioggia non accenna a cessare nemmeno in prossimità dell’uscita per Avignone, prima tappa della nostra sortita francese.
Giriamo per un paio d’ore sotto il diluvio, la bellezza delle stradine acciottolate e medievali del centro storico vengono un po’ offuscate da tanta acqua, quindi cerchiamo riparo nel mercato coperto della città, e poi entriamo nel Palazzo dei Papi, eccezionale costruzione gotica che ha ospitato per quasi settant'anni cinque papi nel XIV secolo. L’ingresso, integrato con l’accesso al Pont du Avignon, altro luogo simbolo della città francese, costa 13,5 euro, ed è meglio acquistare il ticket dal sito considerata l’enorme coda che caratterizza l’accesso.


La visita dura circa due ore ed è arricchita da una specie di tablet che permette di gustarsi il tour come fossimo all’interno di un videogioco, con percorsi, descrizioni e ricostruzioni del periodo. Veramente coinvolgente!
Usciti dal Palazzo dei Papi è il turno del ponte mozzo (così da noi ribattezzato, ndr) e della città vecchia, posta su un promontorio da cui si ha un panorama incantevole.
Mangiamo una crepes alla crema e, dopo un veloce passaggio vicino alla torre dell’orologio, recuperiamo la macchina e puntiamo verso Arles, dove ho prenotato una casetta tramite Airbnb a pochi chilometri dal centro città.

La casa appunto. Ci mettiamo un po’ trovarla, a causa delle bizze del mio navigatore e al fatto che si trova all’interno di un residence tra Arles e l’inizio delle Camargue, cosa a me sconosciuta. Ma è comunque un bel perdersi nella campagna provenzale.
L’abitazione da direttamente su un prato attraversato da un fiume, e poi ancora una distesa verde. Centinaia di metri di verde, boschi e prati. Perlopiù bagnati.
Lo spettacolo è notevole, non fosse che la pioggia continua a scendere a secchiate.

Giorno 2
La sera prima però abbiamo un sussulto d’orgoglio. 
L’indomani non dovrebbe piovere, nonostante resti coperto: decidiamo di sfidare la sorte, mettendoci in sella alle bici e provando a penetrare le Camargue.
Proveremo a entrare nel braccio meno noto, quello che va da Arles a Port Saint Louis du Rhone, e relative saline.
Muniti di kway, prendiamo la provinciale d35 e ci avviamo: la partenza è fissata per le 9, e ci aspettano 40 chilometri per arrivare alla meta.
A parte un breve tratto sullo sterrato, tutto il percorso si snoda su una strada in cemento poco trafficata. Come detto, si tratta del ramo meno turistico delle Camargue, ed è la mattina di un mercoledì feriale in Francia: tuttavia le folate di vento che, impetuose, spirano dal mare alla terraferma renderanno questi 40 km estremamente difficoltosi, e i paesini segnati sulla cartina si rivelano come semplici agglomerati di abitazioni, poche e prive di negozi.
Lo spettacolo è garantito dalle tante tonalità di verde, dagli acquitrini, dal Rodano, così spesso e agitato che a volte pare il mare, dalle piccole costruzioni nella brughiera e dall’assenza di tracce umane per lunghi chilometri.
I fenicotteri sono lontani e protetti, così come i cavalli bianchi e i tori.
Verso l’una arriviamo a Salin de Giraud, il paese delle saline, e siamo tutti d’accordo sull’evitare di spingerci fino a Port Saint Louis, affacciato sul mare: mancherebbero ancora una dozzina di km, che non sono molti, ma sotto quelle folate di vento risulta difficile persino camminare. Compiamo un mezzo giro del paese, ordinato e piacevole, mangiamo una baguette a fianco dell’arena dei tori, paghiamo eccessivamente un caffè troppo lungo e chiediamo qualche informazione nel delizioso ufficio turistico della cittadina.
Le saline sono rosse e vaste, ce le godiamo salendo su un promontorio a due chilometri da Port Saint Louis. Foto di rito. Poi attraversiamo il Rodano con una chiatta di servizio(gratuita) e imbocchiamo la Via Rhona, ciclovia comoda e ben tenuta ( l’inizio lo si nota da 23 imponenti pale eoliche), che ci trascina, complice anche il vento a favore, fino ad Arles.
Prima di giungere a casa ci fermiamo a vedere il celebre ponte di Van Gogh, ripreso in uno dei suoi quadri e situato a una manciata di chilometri dalla città francese dove lo stesso artista olandese trascorse gli ultimi due anni di vita. Nonostante l’assenza di opere custodite nei musei locali , si dice che Van Gogh qui abbia vissuto il periodo più fecondo della sua carriera e in tutta la regione ci sono continui riferimenti allo stesso.
Per la serata avevamo progettato un giretto ad Arles, ma i cento chilometri fatti in bici, di cui la metà contro vento, ci vedono particolarmente provati. 
Finiamo a letto prestissimo, dentro la nostra confortevole casetta ai margini delle Camargue.

Giorno 3.
Dannazione, piove anche oggi!
Che poi tanto dannazione non è, visto che siamo ancora stanchi dalla faticaccia del giorno prima: senza grande tristezza optiamo per la macchina con l'obiettivo di vedere un po’ di meraviglie provenzali.
Partiamo con Nimes, a 40 minuti di distanza, e la relativa Arena. Con 12.5 Euro si compra il biglietto di ingresso con cui si può accedere anche alla Maison Carree e alla Tour Magne.
L’arena romanica si presenta perfettamente conservata, e un audio guida rende la visita particolarmente ricca di dettagli.
A qualche centinaio di metri è situato il tempio romano Maison Carree che, sorprendentemente, non si visita ma al cui interno si assiste a una proiezione di mezzora sulla nascita della città.
Carino ma nulla di più.
Poi si sale un po’ lungo le vie cittadine raggiungendo la Tour Magne, torretta che sovrasta la città, un tempo parzialmente distrutta dalle profezie d Nostradamus. Lo spettacolo è parzialmente rovinato dalla pioggia ed il cielo coperto, e anche il giardino botanico che si apre sotto la torretta dà l’impressione di essere molto più bello durante una giornata di sole.
Giriamo un po’ per il centro storico alla ricerca di una bella Boulangerie con cui riempirci lo stomaco: alla fine optiamo per un Carrefour, meno tipico ma più economico e, consumato il pranzo su una panchina della stazione, puntiamo il Point du Gard sito a 23 km di distanza. (inizio spazio cultura) Il Point du Gard è un ponte romano che attraversa il fiume Gardon, e fa parte di un ampio acquedotto che garantiva acqua alla città di Nimes. Costruito su tre livelli di arcate, è lungo 275 metri e alto quasi 50 (fine spazio cultura).

L’ingresso costa 9.5 Euro, parcheggio incluso, e subito ci viene detto che per la giornata le visite guidate sono finite. Poco male, ci perdiamo nel letto del fiume, dove non scorre acqua, e ammiriamo la costruzione in tutte le sue angolature.
E’ decisamente monumentale, e risulta impossibile non restare impressionati. Si aprono vari sentieri sui colli adiacenti in modo da osservare la struttura da vari punti di vista, oltre a perdersi un po’ nella macchia mediterranea. Finiamo con l’attraversare il ponte e visitare il museo relativo: bello e interattivo, riusciamo a capire qualcosa in più circa quest’enorme e complessa opera ingegneristica.
Dopo la consueta foto di rito,  è il turno di Arles, dove abbiamo intenzione di fare un mezzo giro: con il fatto che abbiamo casa lì vicino c’è il rischio di rimandare all’infinito la visita della città.
Sarà che siamo stanchi sarà il tempo plumbeo, ma la città ci appare piuttosto trascurata, con le sue costruzioni color ocra che riprendono le tonalità dell’ anfiteatro romano , cuore di Arles. Decidiamo di non entrare poiché riteniamo sufficienti i soldi spesi per l’Arena di Nimes e il Pont du Gard.
Ci gustiamo un pastis sulla piazza centrale (continua a non piacermi questa bevanda cara ai francesi), accompagnato da olive e noccioline.
A due passi dall’anfiteatro c’è anche il piccolo teatro romano, e, sempre nei paraggi la bella cattedrale cittadina.
A place du forum è situato il celebre caffè Van Gogh, immortalato dallo stesso in un quadro e sede di una presunta litigata con l’amico Gauguin. Giallo e ben sponsorizzato dalle guide locali, presenta prezzi decisamente elevati. Una foto può bastare.
 
Giorno 4

Questo giorno lo dedichiamo al secondo ramo delle Camargue, quello più “commerciale” che ci porterà dritti a Saintes Marie de la Mer, città più importante della riserva naturale.
Il vento e la pioggia sono stati sostituiti da un pallido sole, e maciniamo chilometri senza patemi. Se non fosse che due delle tre bici presentano qualche difetto: una ha la ruota leggermente deformata a causa di uno scossone preso quando era sul portabici durante il viaggio d’andata, mentre l’altra ha il cambio inceppato. La fortuna è che tutto il tragitto è pianeggiante.
Superiamo il parco ornitologico senza fermarci (ma vista la mole di persone in coda consiglierei l’entrata), e arriviamo alla capitale delle Camargue verso le undici, due ore e mezza dopo la partenza.
Lì veniamo colpiti da quanti italiani sono presenti e, in generale, quanto sia turistica!
Stradine gremite di negozietti, localini dove si può mangiare di tutto, scolaresche in gita, la chiesa centrale, fortificata, sul cui tetto si può salire previo pagamento di 3 euro, e l’immancabile arena dove ai tori viene sfilato un cordino piuttosto che esser brutalmente uccisi come avviene in Spagna.
Dopo un rapido giro sul molo, inforchiamo nuovamente le bici e costeggiamo la diga che dalla città, per 12 km, si sviluppa in un incantevole scenario fatto, sulla destra di mare e sulla sinistra di Rodano, paludi fenicotteri e cavalli. C’è un bel via vai di turisti, e le spiagge che si susseguono sono lunghissime distese di sabbia.
Si arriva con un po’ di difficoltà, a causa della sabbia, al faro (Lighthouse Gocholle) in cui ci sono tavolini e delle stanze illustrative del Parco Naturale.
Lì pranziamo, e, rapidamente, ci mettiamo in marcia per rientrare. Abbiamo i 12 km della diga da fare, più un’altra quarantina fino ad Arles.
Nonostante ci sia un accenno di pista ciclabile, la strada non è fluida come quella di mercoledì, presenta qualche pezzo di sterrato e, complici i tanti km nelle gambe e le bici sempre più a pezzi, fatichiamo non poco ad arrivare a casa.
Non prima, però, di una ricca spesa al Casinò (supermercato francese) in cui acquistiamo vino provenzale, paella surgelata e una viennetta.



L’Ultimo giorno.
E’ tempo di salutare quella che è stata la nostra comoda e accessoriatissima casetta, lasciamo le chiavi al proprietario dell’Airbnb, montiamo le bici sul portabici e ci dirigiamo verso due mete che, in teoria avremmo dovuto visitare il primo giorno ma, visto il tempo, abbiamo deciso di tenere per ultime.
La prima è Les Baux de Provence, nel cuore del parco Les Alpilles.
Si tratta di una cittadella abbarbicata su un monte, estremamente caratteristica e turistica, sovrastata da un castello da cui si ha una vista mozzafiato.
Consiglio a tutti di perdere un paio d’ore tra i vicoli di questa perla della Provenza.
Sempre nel parco Les Alpilles ci sono vari resti romani e un’altra città, Saint Remy de Provence, che abbiamo evitato per la mancanza di tempo.
Dopo un frugale pranzo abbiamo virato verso Gordes, a un ora di macchina.
Già il punto panoramico dirimpetto alla cittadina vale i chilometri percorsi. Prima di raggiungere il cuore del paese decidiamo di puntare l’abbazia di Senanque, a 2 km di distanza, forse attratti dalle foto sulle cartoline che la ritraggono immersa nel viola della lavanda. E’ fine aprile, e la lavanda ancora non è fiorita. Per cui niente viola e niente magia. Pazienza, la camminata è comunque molto suggestiva.
Volendo si può prenotare una visita dentro l’abbazia , costa 7.5 euro e dura un’ora, ma sempre per questioni di tempo, decliniamo l’offerta
Sono le cinque quando rientriamo a Gordes, il paese all’interno è piuttosto piccolo e non presenta attrazioni tali per cui ci sia molto tempo da spendere.
Certo, c’è il solito castellino, ma non ci attrae granché, ed è comunque chiuso vista l’ora.
E poi inizia a piovere. E poi dobbiamo affrontare un viaggio di 5 ore.
Per rientrare cambiamo strada passando per Briancon e il Monginevro. Nella città francese consumiamo l’ultima cena di questa minivacanza, un poco caratteristico panino da Mc Donalds. 
Due ore dopo giungiamo a Torino.



lunedì 11 febbraio 2019

Fes e dintorni


Capita di trovare occasioni a cui è difficile rinunciare, tipo un volo andata/ritorno per Fes a poco più di 50 euro, in partenza da Torino i primi di febbraio. E visto che il Marocco è un Paese che mi ispirava parecchio, e che non avevo mai messo piede in territorio africano, decido che è giunto il momento di cedere alla tentazione: convinco mio papà a partecipare alla spedizione e prenotiamo il volo.
Si va da lunedì a venerdì, tre giorni pieni più un pomeriggio, così spartiti: un giorno e mezzo alla scoperta di Fes, uno a Meknes e Volubilis e l’ultimo alla volta di Chefchaouen, la leggendaria città blu posta a quattro ore di pullman da Fes.

Arriviamo nel modernissimo aeroporto della città marocchina in una calda mattinata di febbraio, e le impressioni paiono subito positive, se non che, una volta usciti dalla struttura, ci viene detto che il servizio bus per raggiungere la città (l’aeroporto si trova a una ventina di km dal Centro) non è operativo: l’unica è affidarsi a un grand taxi. Per la tratta ci scuciono 120 Dh, l’equivalente di 12 euro che, se sembrano pochini a primo impatto, sono da considerarsi un’ingente cifra visto il costo della vita a Rabat e dintorni.
Ma altre opzioni non ce n’erano.
Le tenneries di Fes
Approdati al Nouzha Hotel, un tre stelle che in Italia faticherebbe ad arrivare a due, nei pressi di una piazzetta che da google maps pareva rigogliosa mentre dal vivo si presenta in piena ricostruzione, decidiamo di posare i bagagli e partire subito per un sopralluogo.
Molti sono gli edifici dismessi, semi abbandonati o lasciati in costruzione; le vie brulicano di vita e di macchine che proprio non ci pensano a far attraversare i pedoni, anche sulle strisce -considerate per lo più un optional- , i marciapiedi spesso sono sgarruppati, le barriere architettoniche non si contano e i commercianti ai lati delle strade vendono di tutto, arance e fazzoletti, scarpe e orologi.
Ci sediamo in un locale un po’ spartano: presi dall’entusiasmo c’eravamo quasi dimenticati di mettere qualcosa in pancia: ordiniamo cibo a caso e ci arrivano dei peperoni, del riso, un the verde e un pollo che pareva cotto vari giorni prima. Paghiamo (poco) e ce ne andiamo.
Comprimo un po’ d’acqua e qualche dolciume che potrà tornare utile durante il viaggio. Ed è subito sera.

Martedì lo dedichiamo a vedere la Medina di Fes, a un paio di chilometri dall’hotel.
Ispezioniamo i vicoli colorati e brulicanti del centro storico, veniamo invasi da richieste di tutti i tipi, guide, vendite, posti al ristorante: tutti che hanno come obiettivo quello di spillarci soldi. Missione dura!
Costeggiamo il Dar Batha, palazzo del visir inaccessibile, passiamo sotto la Porta Blu, incantevole, e facciamo un parziale giro delle mura, lunghissime.
Ci perdiamo tra i banchi del bazar e alla ricerca delle concerie, celebri pozze in cui vengono colorate le pelli. Google maps non ci aiuta molto in tutta quella matassa di stradine, e allora un bimbo ci viene incontro chiedendoci se avevamo bisogno, gli indichiamo sulla cartina lo scorcio che stavamo cercando e lui ci scorta fino all’imbocco del negozio, in cui una guida ci prenderà in consegna facendoci salire le scale, donandoci un ramoscello di menta e mostrandoci le famose concerie.
Mio padre si compra persino una cintura in pelle di cammello- chissà poi se era cammello- dopo un’estenuante trattativa, e ben contenti usciamo dalla medina.

All’agenzia di bus CTM, l’unica che si occupa della tratta Fes – Chefchaouen, ci viene detto che tutti i posti sono occupati, sia per mercoledì che per giovedì. Una doccia gelata che ci getta nello sconforto! La città blu sarebbe stata la ciliegina sulla torta di tutto il viaggio, probabilmente la meta più ambita.
Passiamo la serata  a vagliare altre possibilità per raggiungere questa cittadina: nulla da fare, il treno non ci arriva, altre compagnie nemmeno, così come non ci sono passaggi blablacar.
Ci sono tour giornalieri, certo, ma partono da 220 euro l’uno … onestamente non ce la sentiamo. 
Non andarci a questo giro è comunque un buon motivo per tornarci, diciamo un po’ per consolarci.

Meknes è una delle quattro città imperiali, molto più piccola di Fes e distante 40 minuti di treno. In due paghiamo 56 dh, meno di sei euro, e ci rendiamo subito conto che il servizio treni è eccellente e soprattutto … caldo.
Ho omesso di scrivere che in Marocco i termosifoni non sono molto diffusi, e non fa eccezione il nostro Hotel. Risultato: la notte la passiamo a battere i denti, con mio papà che per difendersi dal gelo – la temperatura di notte tocca i 2 gradi - è costretto a dormire con cappello e guanti!

il mosaico che tanto mi piacque
Macinati i soliti due, tre km che dividono la stazione di Meknes dalla medina, facciamo un sopralluogo del centro, decisamente più piccolo rispetto a quello di Fes, finiamo in quella che è la piazza principale, con negozi, bazar, ristoranti, incantatori di serpenti e scimmiette. Mi innamoro di una fontana da cui non esce acqua ma è arricchita da un mosaico incantevole, infine trascorriamo un’oretta in un museo centrale in cui con pochi soldi ci è data la possibilità di osservare abiti e utensili storici del luogo.
Raggiungiamo l’ambasciata francese da cui partono i gran Taxi per raggiungere Volubilis, insediamento romano a una trentina di km da Meknes. Dopo una veloce contrattazione raggiungiamo la cifra di 250 dh per la visita di un’ora al sito.
Particolarmente interessante è il viaggio per raggiungere i resti storici: verdi prati e coltivazioni, oliveti e colline si sostituiscono ai paesaggi brulli e desertici che ci eravamo figurati nelle nostre teste.
Il Marocco ci appare terra decisamente rigogliosa!
L’accesso al sito costa 70 dh, e lo consiglio a tutti.
È un luogo magico, in cui si respira la grandezza della storia che fu. A ripensarci un’ora fu assolutamente insufficiente.
Rientriamo in tempo per subire un’intervista da parte di un gruppetto di scolari che facevano domande sulla superstizione in cui me la cavicchio con il mio inglese sempre troppo mediocre, ci corichiamo un po’ su un giardino cittadino assaporando mandarini e avocadi e rientriamo nella bella Fes.
Lì, ormai lanciati a pieno nel mood marocchino, osiamo mangiare una ciotola di ceci da un baracchino su strada, particolarmente affollato.
Le condizioni igieniche delle tazzine e cucchiai sono quelle che sono, ma tuttora sono vivo.
La mattina dell’ultimo giorno, quella sulla carta dedicata a Chefchaouen, la passiamo a setacciare possibili mete: il babbo è parecchio stanco (aimè, l’età avanza) e nutre dubbi sulla mia proposta di fare una puntatina in giornata a Rabat ( circa 170 km, 2.30h con il treno), quindi decidiamo di puntare Borj Sud, fortezza su un promontorio che sovrasta Fes.
Io e il babbo tra le rovine di Volubilis

Prima di ciò, però, passiamo ancora una volta dalla medina per visitare la Scuola Coranica (solo il cortile è aperto al pubblico non di fede musulmana e non durante la preghiera, costo 20 dh) e una serie di banchi alimentari in cui veniamo scandalizzati dall’esposizione di teste di cammelli, capre, e polli vivi stipati come oggetti in piccolissime gabbiette e pronti allo sgozzamento.

Costeggiamo le mura e puntiamo il bellissimo promontorio, verde e ricco di cavalli che brucano l’erba.
Le pelli stanno asciugano al sole, che tocca venti gradi o qualcosa in più, e alcuni turisti ne approfittano per scattare foto meravigliose.
Lo spettacolo è veramente entusiasmante e, in cima, c’è un bastione diroccato e dall’altro lato del promontorio si vedono delle dolci colline su cui sorgono piccoli borghi e un bianchissimo cimitero.
Il sole è bello alto in cielo, e seppur la tentazione di attendere lì il tramonto è forte, puntiamo la fortezza poco distante. Non è nulla di che, e buttiamo l’occhio sulla periferia: distese di parallelepipedi color ocra piene di vita, una giungla cui evitiamo di addentrarci..
Il ritorno, rigorosamente a piedi, è parecchio lungo, e passeggiando vediamo spegnersi il quarto sole della nostra toccata e fuga marocchina.
C’è ancora tempo per un tajin, piatto tipico a base di prugne, agnello e cipolle, e un’insalatona.
Poi dritti all’hotel, c’è un taxi da prendere alle 5 di mattina. Si presenterà puntuale, pretendendo una tariffa maggiorata, 150 dh, poi via, si torna in Italia.